passi tratti dal libro di Claudio Cisco LA FINE DELLA CICOGNA

uid_118a18f10b6_580_0.jpg

 

 

 

 

 

uid_11af9a5a3ef_580_0

 

“IL VECCHIO E LA RAGAZZA”

 

 

 

 

Un vecchio di 65 anni,

 

un’adolescente di 15.

 

Due età apparentemente distanti,

 

due vite che si svolgono parallelamente

 

nel cuore della Sicilia

 

ma sotto un unico triste denominatore:

 

la solitudine.

 

Ma il destino che sfugge ad ogni regola

 

li fa incontrare,

 

la natura che obbedisce alla legge vera dell’istinto

 

e non alla morale,

 

fa il resto.

 

I due si uniscono carnalmente e mentalmente

 

semplicemente perché ne sentono entrambi il bisogno.

 

Un libro scandalo

 

che si schiera contro la criminalizzazione del pensiero

 

e va oltre la sciocca e viscida censura,

 

presentandosi al lettore

 

come espressione più vera della libertà umana.

 

 

 

 

 

 

 

“Ho sempre considerato lo scrivere come una confessione

 

so di rischiare di essere messo al rogo

 

a causa di questa mia libera ed illimitata sincerità

 

ma sono altresì consapevole

 

di non potervi assolutamente rinunciare”

 

CLAUDIO CISCO

 

 

 

 

 

 

 

 

…Mosè

 

Lo si riconosceva subito, distinguendolo tra un milione di persone, osservandolo da vicino così come da lontano, di fronte o di spalle; era unico, inconfondibile, inimitabile. Sì, era proprio lui, era impossibile sbagliarsi. Aveva appena compiuto 65 anni, una strana età un po’ per tutti, in cui si viene considerati anziani, da qualcuno addirittura già vecchi, anche se la vecchiaia, così come la giovinezza, non è necessariamente e del tutto riconducibile ad un dato anagrafico ma, il più delle volte, è espressione di un modo di essere, di sentirsi e di operare.

 

Si può essere vecchi e spenti perfino a 20 anni, mentre ci si può sentire giovani anche a 80. Insomma tutto è relativo, molti sono giovani di fuori e vecchi dentro e viceversa. Ma lui, i suoi anni, almeno esteticamente, li dimostrava tutti per intero, anzi qualcuno in più. Non curava minimamente il suo abbigliamento e tanto meno la sua figura ma si lasciava andare trascinandosi per com’era come chi si sente ricco per quello che possiede dentro e non per come potrebbe apparire di fuori. I suoi capelli erano bianchi, spettinati ed arruffati in qualunque istante della giornata come se si fosse alzato dal letto proprio in quel momento.

 

Non erano moltissimi ma non lasciavano trasparire alcun segno di calvizie malgrado l’età. La sua barba giaceva sempre lì, al suo posto, da sempre e per sempre, bianchissima come nuvola o zucchero filato o meglio ancora panna, quasi argentata, lo stesso identico colore dei capelli. Una barba incolta, anch’essa non curata, nel più completo abbandono, lasciata crescere così come capita, senza forma o stile, in perfetta paradossale armonia col resto della persona. Sembrava, quella barba, un orticello negletto, lasciato al suo destino, senza la mano amorevole d’un contadino o d’un giardiniere che lo coltivasse per riceverne in cambio i frutti. La sua faccia era rugosa ma non lasciava intravedere un’età senile troppo avanzata. Quelle sue rughe, partendo dalla fronte, si dipartivano in tutto il resto del viso alternandosi però a squarci di volto ancora lisci e quasi infantili come un albero già grande che mostra attaccati ai suoi rami, frutti maturi ed altri ancora acerbi. Un contrasto particolare di vecchiaia e giovinezza, di maturità e incoscienza, di saggezza ed infantilità insieme, che rendevano il viso di quell’anziano particolarmente ammirevole, splendente d’una luce capace di illuminare ed irradiare chiunque la osservasse. Una luce in grado di proiettare all’esterno il bambino mai cresciuto che aleggiava ancora dentro di lui, costretto a dimorare, suo malgrado, in un corpo non più infantile. Anche i suoi occhi non stonavano affatto con quell’armonia di impressioni. Ma anzi lo rendevano ancora più affascinante perché vispi, indagatori, attenti e profondi, di colore castano che volgeva timidamente al verde, dentro i quali, in età ormai lontana, una ragazza innamorata avrebbe potuto meravigliosamente specchiarsi, fino ad esserne completamente rapita, soggiogata, stregata. I suoi denti, a dispetto dell’età e del fumo delle sigarette, si mostravano ancora straordinariamente bianchi, d’una bianchezza simile a quella dell’avorio, erano rimasti intatti, del suo colore naturale, tali da far invidia ad un giovane. Persino le labbra sembravano virili, fresche e morbide come fossero ancora pronte a ricevere il bacio di un’amante. Era, visto nel suo complesso, il viso d’un uomo avanti con gli anni ma che dimostrava appieno la sua vitalità, quella vitalità che poteva essere presente in un giovane rivelando un inquieto e misterioso fascino.

 

Segnale d’una antica bellezza che, anche se sfiorita inevitabilmente col trascorrere del tempo, in un’età lontana, poteva benissimo essere stata viva e seducente, tale da riuscirsi a cogliere ancora adesso. Anche nell’espressione del suo sguardo, vi era qualcosa di magico, pareva quella di un giudice severo che stava per emettere una sentenza da un momento all’altro, ma al tempo stesso, cambiando d’atteggiamento, paradossalmente, dava l’impressione di essere uno sguardo rassicurante come quello di un padre nei riguardi del proprio figlio. Un modo di guardare vigile e intenso, contraddittorio a volte, fedele specchio, del resto, della sua persona senza certezze, sempre in bilico con se stesso, senza una strada ben precisa sulla quale muovere i propri passi o una meta già stabilita da raggiungere. Era la sua, la filosofia di vita di chi vive alla giornata, di chi non cancella in un sol colpo il suo passato ma non guarda nemmeno per un momento al suo futuro. Lui non programmava mai le sue scelte in prospettiva futura né si chiedeva cosa succederà domani, gli interessava soltanto cosa fare adesso, immerso solo ed esclusivamente nel suo presente, che era l’unica realtà che contava. Quella luce che, sia pure offuscata dagli anni, gli brillava ancora in viso, non era invece riscontrabile nel suo fisico che appariva invecchiato, appesantito con qualche chilo di troppo, specie nella pancia che si notava in tutta la sua rotondità. Tutto ciò veniva ancor più messo in evidenza, in negativo, dal suo modo di vestire che era assolutamente sciatto, totalmente trasandato e dimesso, pareva vestirsi con quello che capitava, il minimo indispensabile per non uscire svestiti. Era privo di ogni gusto estetico, a volte indossava sempre le stesse cose. Dava l’impressione di un barbone che non amava né l’ordine né la pulizia e che preferiva non curarsi abbandonandosi a se stesso e al proprio destino. Il suo nome di battesimo era Giovanni, non dirò il suo cognome non ritenendolo importante od opportuno nello svolgimento del racconto, ma tutti lo chiamavano col soprannome di Mosè, proprio per quel suo aspetto patriarcale, da profeta che richiamava, sia pur lontanamente, a quel famoso personaggio biblico che ricevette sul monte Sinai, i comandamenti da Dio. Quel nome gli era stato affibbiato da qualcuno tanti anni fa e, come spesso accade in simili circostanze, si era propagato subito di bocca in bocca, sino a sostituire quello vero a tal punto che da allora, per tutti lui si chiama Mosè e quasi nessuno, adesso, conosce più il suo vero nome.

 

 

… Fia

 

Un orsacchiotto di peluche piccolino con uno sguardo timido ed impaurito, seduto, appoggiato sul muro della sua cameretta. Una bambola grande e strana con un’espressione da far paura, inquietante e misteriosa, quasi fosse venuta dal nulla, con due occhi di ghiaccio e con addosso soltanto le mutandine, sembrava la bambola assassina, un po’ sadica e un po’ sexy. Un paio di posters attaccati al muro raffiguranti i volti di idoli musicali, belli come divi da fotoromanzi. Qualche strano disegno che mostrava tombe, cimiteri, sangue, atmosfere surreali ed indecifrabili, almeno a prima vista. Più sopra, in un angolo del muro, attaccato ad un chiodo, uno scheletro di gomma, color verde fosforescente, che penzolava ondeggiando qua e là, muovendosi più forte quando v’era una corrente d’aria ma che non incuteva molta paura, pareva appartenere ai cartoni animati più che ai films dell’orrore. E poi, sulla scrivania, un computer portatile nuovo con la relativa tastiera, dei libri, quaderni, parecchie foto in cornici col suo viso in diverse e svariate espressioni. Un astuccio aperto con dentro un sacco di penne e matite sparse qua e là, alcune delle quali per terra. Un televisorino piccolo ma di bell’aspetto col telecomando, un videoregistratore, dei cd, un cellulare e lì vicino uno stereo di dimensioni ridotte ma di valore, molto sofisticato e tecnologicamente avanzato. Continuando a girare con lo sguardo per quella cameretta di inequivocabile fisionomia giovanile, vi si poteva scorgere un lettino per una sola persona con delle lenzuola bianche lo stesso colore del cuscino ed una coperta più scura, molto leggera, abbassata sino a metà letto. Sopra vi erano vestiti d’ogni tipo e per ogni stagione, da notte e per uscire, molti dei quali sarebbero dovuti stare dentro l’armadio e non lì sopra. L’armadio vi era, ovviamente, in quella stanza ma si presentava con uno dei sportelli aperti che lasciavano vedere un’infinità di vestiti ed indumenti vari, uno sopra l’altro, così come capitava, alcuni arrotolati come fogli di carta straccia senza alcun ordine e la benché minima cura. Quella stanza, al primo sguardo, era il ritratto del disordine che regnava ovunque e in qualsiasi cosa. E lì dentro, davanti allo specchio più impolverato che lucido, vi era lei, bellissima con i suoi quindici anni compiuti da due mesi, lei che col suo aspetto annullava, come per magia, tutto il disordine che vi era intorno concentrando su di essa grazia, armonia, giovinezza. Prepotente, catturava quello sguardo indagatore che poco prima frugava fra le cose della sua stanzetta. Vi riusciva con la vitalità e la sensualità della sua età, rendendo lecito e giustificabile, tutto ciò che di sbagliato e di fuori posto vi era lì dentro. Lei ora rappresentava il centro, il motore, la parte principale di quella stanza come se tutto vi ruotasse intorno. Lei, l’adolescente, indiscussa protagonista, attrice, stella del firmamento, giovanissima dea nata per amare ma soprattutto per essere amata. Quell’ipotetica telecamera nascosta dentro la sua camera adolescenziale per spiare le sue cose, il suo mondo che io stesso era come se avessi piazzata, ora non poteva che soffermarsi su di lei mentre si guardava allo specchio, in quella mattina inoltrata d’agosto. Quando una ragazza o una donna in genere, si alza dal letto, senza trucco e tutta in disordine, mostra realmente il suo fascino o la sua bruttezza, senza inganni, senza maschere. È proprio in quel momento che appare come realmente è, come un’attrice dietro le quinte di un palcoscenico, finita la recita. Lei, la quindicenne, era bella e provocante anche in quel modo. Lunghi capelli neri lisci e lucenti le coprivano le spalle, delicatamente e con armonia come una giovane puledra con la sua criniera al vento che leggiadra, galoppa libera tra i campi, talmente viva e ammaliatrice da lasciarsi correre dietro mille stalloni. Apparivano spettinati quei capelli ma soltanto in fronte e sulla parte alta della testa, era un leggero disordine che anziché richiamare alla negligenza e alla noncuranza come tutta la sua stanza, riconduceva meravigliosamente ad una bellezza giovanile e precoce, ad una sensualità gitana, vibrante, animalesca e selvatica, ritratto di una creatura figlia della concupiscenza ma ricca di celestiali virtù, come angelo del diavolo. Vista da dietro mentre continuava a specchiarsi, pareva una giovanissima tigre che ruggisce ma anche una tenera gattina che fa le fusa. Tutte sensazioni contrastanti che, agli occhi di chiunque la spiasse, penetravano come una lama appuntita nella carne lasciando un brivido sulla pelle, come il ghiaccio sulle foglie che, sciogliendosi, lascia gli alberi a tremare. Ma queste vivide e laceranti sensazioni, potevano essere avvertite e decifrate, soltanto da chi possiede l’arte nel sangue, nel proprio Dna, da chi ha innato dentro quell’erotismo prorompente ed inarrestabile che porta a guardare una donna, in questo caso una ragazza, con gli occhi della magia e del desiderio. Desiderio che non nasce dal peccato come vorrebbero farci credere, ma dal candore dell’innocenza che spruzza sensualità da tutti i pori. Tutta questa autentica forza della natura, può offrirla solo la giovinezza che fiorisce, l’adolescenza che rapisce e trasporta con sé in mondi inesplorati e che non è mai sinonimo di volgarità ma sempre espressione di felicità, gioia, paradiso terreno. Cosa c’è di più bello su questa terra e forse anche in cielo, dell’ammirare un giovane corpo d’adolescente che è arte, armonia, bellezza, piacere? È l’essenza stessa della vita, il vero motivo per cui vale la pena vivere.

… Mosè

Mosè, sopra il suo motorino, stava percorrendo la strada di ritorno verso casa. Ma la tristezza che l’aveva tormentato poco prima e che sembrava gli avesse dato una tregua, si ripresentava nuovamente nel suo animo sotto forma di una voce intima che, divertendosi a tormentarlo, sembrava dirgli: “Ma che te ne fai adesso dei soldi che ti hanno dato? Ora tornerai nella tua baracca, solo come un cane, nessuno verrà a trovarti, sei solo Mosè, vecchio e solo, non lo capisci?” Il vecchio rabbrividì, si sentì raggelare il sangue nelle vene nonostante il caldo d’agosto. Si sentì stordito. Ora provava a guidare con gli occhi chiusi quasi per dimostrare a se stesso di non aver paura di morire ed un uomo, chiunque esso sia, che non teme la morte, non può aver paura neanche della solitudine. Si consolava così il povero Mosè. Ma la solitudine è una brutta compagna, peggio di un serpente, è un angelo che si trasforma in demonio quando uno meno se lo aspetta. Lui lo stava capendo solo ora, a 65 anni.Mosè, tutto d’un tratto, si rese conto di non essere più forte e sicuro di sé, di essere vulnerabile e solo, avanti negli anni, impossibilitato di rifarsi una vita. Il demonio, o chi per lui, trova terreno fertile in chi, anche inconsapevolmente, è disposto a riceverlo, e così continua a coltivare i suoi tormenti. Mosè riuscì ad arrivare più morto che vivo nella sua catapecchia. Pensò di rifugiarsi nella birra, per affogare i suoi dispiaceri e sentirsi un po’ euforico. Sapeva benissimo che la birra sarebbe stata solo un ripiego momentaneo e che poi si sarebbe ritrovato col solito problema e più solo di prima ma era l’unica soluzione che, in quel momento, la sua mente confusa, gli suggeriva. Aprì quella specie di frigorifero, afferrò con le mani tremanti 5 o 6 bottiglie di birra più calde che fredde e le bevve in fretta una dopo l’altra e in poco tempo, Ma non bastarono a farlo sentire completamente brillo. Allora aprì nuovamente il frigo cercandone altre ma non ne trovò più. Più intontito che mai, uscì fuori. L’aria pura della campagna, leggermente più fresca di sera, sembrava rigenerarlo un po’. Camminò intorno alla casa, inciampò per sbaglio su uno dei tanti gattini pestandogli la coda e l’animale emise un urlo: “Scusami gattino mio, non l’ho fatto apposta, non volevo farti male, sto diventando vecchio e rimbambito gattino mio, tu almeno sei giovane!”Mosè parlò al gattino col cuore aperto, come si rivolgesse ad un essere umano. E quanto avrebbe desiderato, in quel momento, avere accanto qualcuno per confidarsi, per sfogarsi! Ma la solitudine come anche la vecchiaia non offre, purtroppo, molte possibilità anzi non ne presenta affatto e al vecchio e stanco Mosè non rimase che il gattino come unico interlocutore e l’animale sembrò capirlo e rispondergli con lo sguardo. Sembrava avesse accettato le scuse di Mosè per avergli pestato la coda, lo guardò con due occhietti quasi fosforescenti, e poi, mogio mogio, si allontanò. Mosè fece ancora qualche passo, più barcollante che mai, andò dai polacchi che abitavano poco distanti da lì, nell’unica casa nelle vicinanze, poi tutto il resto era campagna. Avrebbe voluto chiedergli una bottiglia di birra ma, con suo dispiacere, non vi trovò nessuno in casa di domenica sera. Tornò a casa deluso, pensò di fumare qualche sigaretta ma cambiò subito idea, voleva bere e non fumare, lo riteneva più utile. Si ricordò di avere da qualche parte ancora una pastiglia multivitaminica che gli aveva dato una parrocchiana per tirarlo un po’ su e la cercò tra le cianfrusaglie di quella abitazione. La trovò finalmente, era l’unica rimasta, era bianca ma sporca e piena di polvere senza astuccio, non si sapeva neanche la scadenza di quel prodotto ma a Mosè importava ben poco, l’avrebbe ingoiata anche se scaduta da cento anni. Prese un bicchiere più sporco che pulito, gli versò dell’acqua e buttò dentro la pastiglia che doveva essere sciolta per essere presa. Era frizzante, aveva un bel gusto simile alla aranciata, era gassata, poteva ricordare lontanamente la birra. Lui non aspettò neanche che si sciogliesse per intero e la bevve quasi subito, e tutta in un sorso. Ora Mosè, più stremato che mai, era giunto proprio al capolinea. Senza aver mangiato e con sei bottiglie di birra ingoiate a stomaco vuoto unite ad una pillola di vitamine, sfiancato da tutte quelle sue paure nell’anima, si indirizzò verso il suo letto. Trovò, per caso, un crocifisso per terra in mezzo ai tanti stracci che inondavano la sua capanna. Lo guardò chiedendosi: “Cosa ci fa un crocifisso qui? Chi l’ha portato? Forse era dentro la giacca che mi ha dato qualche parrocchiana, magari domani lo riporto a padre Santino in chiesa, lui saprà cosa fare, domani però, ora sono troppo stanco”. Sentiva che la stanchezza ed il sonno stavano prendendo il sopravvento su di lui. Avrebbe voluto posare quel crocifisso sul tavolo ma non ne ebbe la forza. Chiuse gli occhi, arrivò appena in tempo per non cascare per terra, sul suo letto, mai così importante ed indispensabile. S’abbandonò tra le braccia di Morfeo, così, esausto, addormentandosi col crocifisso in mano come un uomo ormai vecchio e malandato, abbandonato al proprio destino che poteva anche morire in silenzio, senza fare rumore, nessuno se ne sarebbe accorto. Ma che per un momento, anche se solo in sogno, sarebbe potuto ridiventare bambino o giovane trovando rifugio in quel crocifisso, trasformato in bellissimo principe azzurro pieno di forza che ormai è vicino alla sua principessa.

… Fia

Un altro caldo pomeriggio estivo da passare chiusa in casa, completamente sola, in balìa dei propri assillanti pensieri. Ormai era sempre così per lei. Da quando però aveva scoperto le gioie del sesso soddisfacendosi da sola, non aveva più smesso di pensare a quello e non v’era momento della giornata in cui il desiderio o le fantasie più sfrenate non la rapissero. Perfino la notte, quando dormiva, sognava quello e sempre quello. Distesa sul letto, seminuda, lasciava che la sua fantasia galoppasse libera verso prati sconosciuti e senza fine, immaginando di tutto, senza limiti. Almeno il pensiero non lo si può criminalizzare, con la mente Fia avrebbe potuto fare sesso con chiunque e in qualunque modo, nessuno l’avrebbe scoperta o condannata. Sarebbe rimasto un segreto tra la sua mente e il suo corpo. Le più strane fantasie che potessero passare per la mente ad una ragazza, ora le si presentavano davanti con tutta la loro forza, sotto forma di tentazioni, di eccitazione violenta e incontrollabile e, ad ognuna di esse, faceva seguito una nuova frenetica pulsazione dei battiti del suo cuore che aveva ripreso a martellare scoppiandole in petto. Immaginava di essere di fronte a delinquenti brutti che la stupravano a turno, di trovarsi completamente nuda davanti allo sguardo di mille uomini di colore. Questi pensieri, se da un lato la terrorizzavano, dall’altro la eccitavano tantissimo. La fantasia ormai non conosceva più limiti. Immaginava di essere legata ad un letto e di essere presa a schiaffi e pugni, insultata, umiliata. Una fantasia che più che farle paura, la stimolava ancora. Immaginava di essere sodomizzata, un pensiero che le aveva fatto sempre ribrezzo perché animalesco e contro natura ma che ora, pensava le sarebbe piaciuto provare con chiunque le capitasse a tiro. Con la fantasia tutto è lecito e consentito, non si viene condannati e Fia continuava il suo viaggio senza sosta verso l’abisso o il paradiso. Era caldissima ma non per il clima, era il suo corpo in fiamme, era una brace di desiderio, capace di bruciare chiunque l’avesse toccato. “Ma chi può toccarmi all’infuori di me sola?”, pensava la piccola Fia, “Vivo in un paesino isolato dal mondo, peggio di una prigione”. Sì, una prigione e immaginava di trovarsi lì, bellissima e giovanissima, nuda sul lettino di una cella, palpata e violentata da detenuti che sicuramente dovevano avere una gran voglia, vista l’astinenza. Il terrore di trovarsi in quella situazione si mescolò al desiderio di volerci essere e la ragazza arrivò al punto di non capirsi più. Ma una fantasia si accavallava sull’altra senza un attimo di tregua che potesse farla respirare. Sembrava una mitragliatrice che sparava i suoi colpi a raffica, uno dopo l’altro, uccidendola senza pietà. Di tanto in tanto, le passava per la mente di provare a mettere in pratica qualcuna di quelle fantasie ma avrebbe dovuto trovarsi in una grande città dove nessuno la conoscesse per farlo e non certamente in quel paesino della Sicilia dove era conosciuta e stimata da tutti, come una santarellina tutta casa e chiesa. Ma quanto risultano sbagliati, il più delle volte, i giudizi che la gente dà su di noi. Ma risulterebbe difficile per chiunque giudicare una ragazza come Fia che, in fondo, nella realtà, non aveva avuto rapporti sessuali con nessuno. Un’altra ennesima prepotente fantasia, si affacciava nella mente annebbiata di lei. Si immaginò vestita sexy e provocante mentre camminava per le strade di una metropoli e che tutti la guardassero e la spogliassero con gli occhi del desiderio. Le è sempre piaciuto sapere di piacere, di suscitare emozioni. Fia si eccitava se sapeva di eccitare, si sentiva orgogliosa, potente, importante, grande.Così si alzò dal letto, cercò nella confusione della sua stanzetta, la gonna più corta che potesse avere e la indossò sostituendola al pantalone del pigiama. La vista delle proprie gambe mentre si sfilava i pantaloni per indossare la minigonna, la eccitò fino alla spasimo. Aveva sempre saputo di avere delle bellissime gambe, lisce, calde, tornite che, in quel momento, le parvero ancora più belle e le toccò delicatamente con le mani, poi ci posò sopra le labbra, la lingua. Quanto avrebbe voluto e desiderato che fossero le mani e la bocca di un altro a sfiorarla così come stava facendo da sola! Ma era sempre e solo lei. Indossò la gonna, si guardò allo specchio e si vide bellissima da far venire un infarto a chiunque l’avesse vista in quel modo. “Se uscissi così con questa gonna, magari senza slip sotto e sculetterei davanti al bar dove si siedono sempre quei vecchi bavosi di Leonforte, li farei morire tutti in un sol colpo, stecchiti come zanzare dopo una spruzzata di insetticida”. Questa fantasia la trovò non solo divertente ma anche eccitantissima. Si immaginò di essere seduta in minigonna e con mezzo seno di fuori, bellissima e giovanissima come sempre, sulle ginocchia di quei vecchi che le palpeggiavano le gambe, i seni, le natiche, tentando di infilarle le loro lingue in bocca. Formulò la conclusione che l’avrebbe fatto se la fantasia si sarebbe potuta trasformare in realtà senza conseguenze. Presto la voce si sarebbe sparsa in tutto il paese, sarebbe stato uno scandalo, in poco tempo l’avrebbero saputo anche i suoi genitori e chissà cosa avrebbero pensato di lei, la loro ingenua piccolina Fia. Non voleva dare loro questo dolore. Lei era una brava ragazza, erano i suoi pensieri che sfuggivano ad ogni logica ma obbedivano solo all’istinto. Se l’avessero scoperta a farsi mettere le mani addosso da quei vecchi, l’avrebbero tutti etichettata come “puttanella” oppure come “troietta” quella che se la fa con tutti, pure con i vecchi, Fia la “puttanella” di Leonforte.Ma se quella parola prima l’avrebbe offesa e umiliata fino a farla piangere, ora le piaceva terribilmente, anzi essere chiamata in quel modo la eccitava ancora di più, e forse sarebbe stata felice e orgogliosa di essere considerata da tutti per quello, che anche se solo nella fantasia, si sentiva di essere. Finalmente l’avrebbero capita, compresa, riconosciuta. Non avrebbe mai più dovuto fingere con se stessa e con gli altri, ma era il giudizio che gli altri le avrebbero dato che la spaventava. Fia continuava a guardarsi allo specchio trovandosi bella e seducente. Avrebbe voluto indossare collant e reggicalze nere ma non ne aveva mai avute in casa e poi sarebbe stato un peccato coprire quelle bellissime gambe che aveva. Pensò però di truccarsi più sexy che mai, era curiosa di vedere come stesse, non lo faceva quasi mai, era sicura di diventare una vera bomba del sesso, non conosceva la parola modestia. I suoi non erano in casa e non avrebbe potuto vederla nessuno. Era diventata una strana ragazza Fia, viveva immersa nel suo mondo virtuale e sconosciuto a tutti nel quale nessuno poteva anche solo immaginare di entrarvi anche perché troppo difficile e complesso per essere decifrato. Esisteva solo lei, il suo corpo, il suo specchio e le sue fantasie e null’altro. Fia era isolata da tutti e da tutto, sia mentalmente sia geograficamente. Era tremendamente e spaventosamente sola. Alla base del suo comportamento vi era la solitudine, che colpisce chiunque e a qualunque età, sotto forme diverse, alcune delle quali incomprensibili, almeno in apparenza. La ragazza correva verso la stanza della mamma, cercava il rossetto. Scelse quello più lucido e più rosso, tornò nella sua camera, si mise davanti allo specchio e se lo passò in fretta sulle labbra, era una novità visto che non lo faceva quasi mai, era una ragazza acqua e sapone dal viso pulito. Ma quella apparteneva al passato, morta e sepolta, ora viveva una nuova Fia, tutta diversa, se in meglio o in peggio lo lascio giudicare al lettore. Mentre si passava il rossetto, si inumidiva ogni tanto le labbra con la punta della lingua. Esagerò col colore ma divenne bellissima. Sembrava una Lolita, una ninfetta da amare, una bambina col corpo da donna. Se in quel momento ci fosse stato un bravo pittore, avrebbe creato il ritratto più bello e seducente che sia mai stato fatto al mondo in tutti i tempi. La ragazza si alzò in piedi, cercò nel disordine di un cassetto una borsetta, poi un paio di scarpe nere quelle col tacco più alto, sostituì la giacca del pigiama con un top corto ed attillatissimo, tornò a guardarsi allo specchio e cominciò a sculettare, tenendo in una mano la borsetta e girandola con una mimica e uno sguardo superiore alla più esperta e brava delle prostitute e poi disse: “50 euro prego, io valgo tanto, sono carne fresca, una delizia, una rarità”.Allo specchio la ragazza si giudicò divina, si stupì di se stessa e di quello che stava facendo e pensando, ma era sola, lei e soltanto lei, nessuno sapeva, nessuno vedeva. Immaginava che sarebbe potuta diventare ricca in poco tempo se solo avesse messo in pratica quella fantasia che stava realizzando per gioco. Ma non erano i soldi che la attiravano in quel momento, ma l’idea di poter essere considerata da tutti quello che, sia pure in fantasia, si sentiva di essere. Trovarsi in strada, vestita in quel modo a soli quindici anni, la faceva letteralmente impazzire di desiderio.Si vedeva mentre saliva sulla macchina d’un cliente, immaginava di accontentarlo in tutto e per tutto, di intascare soldi e ancora soldi. Finalmente si sarebbe sentita importante, adulta, cercata, valorizzata, idolatrata, venerata. “La vera puttana sono io perché lo faccio per piacere mentre quelle che chiamano così lo fanno per i soldi e per necessità”, pensava la piccola Fia, e lo pensava con orgoglio. L’idea di vendersi per la strada così in quel modo e senza alcun pudore la eccitava ancor di più, rendendola letteralmente folle di desiderio.Non resistette più, corse in lavandino e si lavò la faccia, togliendosi il trucco che colava lentamente come cera che si scioglie ed era ancora più attraente. Decise di farsi un bagno per togliersi di dosso il sudore e quei bollenti spiriti. Ma l’acqua sulla pelle nuda anziché calmarla la stimolava di più, pensava quanto sarebbe stato bello fare l’amore sotto la doccia o in una vasca da bagno. Era un’ossessione ormai, un continuo delirio senza fine e senza uscita.Ritornò nella sua stanza, asciugandosi in fretta e furia, passando per la cucina vide un coltello, una strana idea le balenò nella sua testolina che sembrava quella di chi si sveglia ancora sotto l’effetto dell’anestesia, dopo un intervento chirurgico. “E se me lo conficcassi nella pancia? Così almeno metterei fine a questo tormento e avrei un po’ di pace”. Sapeva che non l’avrebbe mai fatto e non ebbe paura di averlo anche solo pensato anzi ci rise subito sopra, sapeva di essere, nonostante tutto, una ragazza di carattere forte e giudiziosa. Ma anche la persona più forte e sicura di tutto l’universo, può diventare una formica dinanzi all’istinto sessuale. “Perché morire per una stupidaggine del genere?, pensava Fia “A chi non piacerebbe scopare? Dovrebbero uccidersi tutti allora e il mondo finirebbe e poi se non si scopa non nascono i figli. Io sono nata per una scopata, anche i miei genitori l’hanno fatto, tutti l’hanno fatto, solo io non l’ho mai fatto e che male c’è a desiderare di farlo? Anzi sarei anormale se non lo desiderassi”. Questi pensieri di Fia, apparentemente puerili ed infantili e d’una semplicità elementare nella forma, avevano nel contenuto una profondità di vedute di alto spessore, ma una ragazza di quindici anni avrebbe potuto esprimerli solo in quel modo e con quelle parole. “E se mi facessi sterilizzare?”, continuava a pensare ironicamente Fia. Tornò a guardarsi allo specchio quasi seminuda, bellissima e parlando ad esso come se potesse sentirla, disse queste parole: “O specchio delle mie brame, sono io la più bella del reame, lo so e non c’è bisogno che me lo dica tu ma se solo potessi toccarmi, non posso essere sempre e solo io a farlo”. Lo specchio ovviamente non rispose ma le rimandò indietro la sua immagine più seducente che mai. In quel momento Fia avrebbe voluto essere brutta, grassa, piena di lentiggini, con baffi e cellulite, forse non si sarebbe eccitata col proprio corpo e non avrebbe avuto tutti quei pensieri, avrebbe raggiunto la pace dei sensi, “Forse è per questo motivo che alcune si fanno monache”, pensava ridendo. Forse sono malata e devo curarmi. Devo parlare con uno psicanalista. Così mi farebbe stendere sul suo lettino ed io lo provocherei e mi farei scopare da lui. Ecco, ci risiamo. Non è possibile che il sesso entri in ogni cosa. E se avessi il demonio in corpo? Forse è meglio chiamare un esorcista ma mi scoperei anche lui”. D’un tratto le venne in mente un’idea che la scosse subito. Vide il computer, si ricordò di avere l’abbonamento per navigare su internet 24 ore su 24, lo aveva fatto suo padre che lo utilizzava per lavoro, e lo accese. Il suo disegno era quello di entrare in quelle famose chats per trovare qualcuno con cui poter dialogare di cose erotiche, ovviamente, tanto lei avrebbe mantenuto l’anonimato senza essere né vista né riconosciuta e avrebbe potuto confessare i suoi tormenti e magari fare l’amore via telematica, anche quella poteva considerarsi una fantasia e lei era la regina delle fantasie.L’idea di dialogare di cose intime con uno sconosciuto, la prendeva moltissimo. Questo eccitante progetto, però, finì sul nascere. Presa dall’enfasi di quel pensiero, aveva dimenticato che le sue scarse conoscenze informatiche non le avrebbero permesso di farlo. Né poteva chiedere l’aiuto di suo padre per ovvi motivi. Decise di non arrendersi e di usare lo stesso internet limitandosi a quello che sapeva fare. Tutta eccitata, e non era una novità, cerco sul computer un motore di ricerca e digitò le parole: sexy, porno, hard. Questo le venne più facile. Ora una infinità di immagini oscene peggio delle sue fantasie erotiche, scorrevano nel computer e, cosa più tragica, nella mente di Fia. Quelle strane immagini che prima lei non avrebbe mai esaminate perché giudicate schifose, ora l’attiravano terribilmente, aumentando a dismisura la sua libidine: “Sono tutti malati questi che si vedono nel computer?”, pensava. “Questi si divertono, mamma mia, ma che fanno quelli e quelli? Tutti al mondo lo fanno, solo io no!”. Si immaginava di essere lei al posto di ogni donna che vedeva e la invidiava. Le sarebbe piaciuto fare l’attrice porno e distribuire al mondo intero tramite internet le sue foto di nudo in modo che tutti potessero desiderarla ed eccitarsi col suo corpo. Sognava ad occhi aperti di fare un calendario. Era arrivata sul punto del non ritorno, e stava cominciando ad accarezzarsi le parti intime, quando sentì il rumore dei passi dei suoi genitori che stavano tornando. Chiuse in fretta il computer, cercò di sistemarsi come meglio poteva, per fortuna si era tolta il rossetto e corse ad aprire la porta. Si trovò davanti la mamma che la guardò e colse subito in quel viso stravolto qualcosa di strano e misterioso, ma non avrebbe mai potuto capirne il motivo.Le disse soltanto: “Fia, ti senti bene? Va tutto bene?”. Lei rispose subito: “Sì mamma certo che va tutto bene, non c’è nessun motivo per cui debba andare male, non preoccuparti, c’è troppo caldo, non lo sopporto, non si respira”. Sembrava, in quel momento, essere tornata la bambina di prima, quella che i genitori conoscevano e ritenevano che fosse ancora. In verità il caldo Fia lo sentiva davvero, ma era un altro tipo di caldo che neanche se si fosse gettata in un mare ghiacciato del polo nord, avrebbe potuto eliminare. E pensare che la ragazza si era sempre confidata con la madre, non le aveva mai nascosto nulla, non aveva segreti di nessun tipo, era una ragazza troppo tranquilla. Avrebbe voluto aprirsi con lei raccontandole del dramma intimo che stava vivendo ma non trovava il coraggio. Come avrebbe potuto farlo? Con quali parole? Come avrebbe potuto rivelare tutte le sue sfrenate fantasie a una signora all’antica e di grande moralità quale era sua madre? Cari lettori, devo dirvi con tutta onestà che, pur sforzandomi, non so se Fia avesse fatto bene a non dire nulla alla madre o se invece l’avrebbe dovuto fare. In ciascuno dei due casi avrebbe sofferto qualcuno. Si sarebbe sentita meglio Fia ma sarebbe morta la madre se l’avesse detto, avrebbe sofferto in silenzio la ragazza ma sarebbe stata tranquilla la madre, nel secondo caso. Comunque se Fia non l’aveva fatto, oltre alla mancanza di coraggio, era soprattutto per il grande amore verso la madre, non avrebbe voluto ferirla così bruscamente, ne avrebbe avuto il rimorso e si sarebbe sentita doppiamente in colpa.Penso cari lettori, che all’origine di questo dramma familiare, vi sia l’assoluta mancanza di dialogo tra genitori e figli. Si può parlare di tutto ma quando si tocca la sfera sessuale, subentra il tabù che blocca tutto. Se Fia avesse potuto parlare di questo argomento del tutto naturale, liberamente con la propria madre sin da piccola, tutto questo non si sarebbe sicuramente verificato. Gli adulti sono autorizzati a insegnare tutto ai minori, la storia, la geografia, l’educazione, tutto tranne il sesso. Dopo aver dato quelle risposte sbrigative alla madre, Fia corse nella sua stanzetta, si sentiva terribilmente sola e smarrita nonostante la sua bellezza, nonostante i suoi quindici anni. Non poteva aprirsi con nessuno, neanche con i genitori che erano le persone più care che avesse al mondo e che l’avevano vista crescere. Chiuse la porta a chiave e si seppellì lì dentro nel suo mondo, con le sue cose e con la sua tristezza. Si gettò sul letto a pancia in giù, appoggiando la testa da un lato sul cuscino e poi pianse, pianse, pianse e ancora pianse disperatamente. Se non poteva sfogarsi con nessuno con le parole, le restavano pur sempre le lacrime per poterlo fare. Ora la donna sensuale era diventata bambina, aveva riacquistato la sua vera età, solo per un momento, ma almeno l’aveva riacquistata.


uid_121f98ea844_580_0uid_12237975a47_580_0uid_11d9bc58027_580_0263202_4787039246339_1301928392_n

 

 

 

 

 

 

passi tratti dal libro di Claudio Cisco LA FINE DELLA CICOGNAultima modifica: 2012-12-24T09:30:00+01:00da claudiocisc1
Reposta per primo quest’articolo